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D’Annunzio
Gabriele
Bell’insieme di autografi dannunziani: testo autografo di un telegramma inviato al Comandante Costanzo Ciano di Cortellazzo, datato 26 giugno 1923, una pagina in 4° con relativa busta dotata di sigilli rossi; tre lettere autografe firmate, su carta intestata Ardisco non Ordisco – Semper Adamas e Io ho quel che ho donato, indirizzate a Mario, probabilmente Mario Buccellati, 5 pagine in 4°; una lunga lettera di 11 pagine in 4° indirizzata a Costanzo Ciano, datata Il Vittoriale 1 dicembre 1923, su carta intestata Sufficit Animus.
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Note:
Tra il telegramma del 26 giugno e la lettera del 1 dicembre scorre un anno particolarmente importante per D’Annunzio, soprattutto per un episodio centrale di quella stagione: la stesura del Patto marino. «Noi siamo oggi convenuti per restaurare, nella ferma pacificazione degli animi e nella cooperazione leale delle volontà, le fortune della Marina Mercantile italiana». Sono le prime tre righe del «Patto marino» del 21 luglio 1923, il primo grande accordo per la gente del mare «scritto a penna» da Gabriele d’Annunzio. La corrispondenza con Costanzo Ciano, che dal 31 ottobre 1922 assunse la carica di Sottosegretario di Stato per la Regia Marina e di Commissario per la Marina Mercantile ed il 9 novembre 1923 conseguì la promozione a contrammiraglio nella Riserva Navale, ruota proprio attorno alla stesura del Patto.“I miei sforzi di persuasione compiuti con la più schietta fraternità incontrano resistenze mal dissimulate. Stop. Ti confesso che sono stanco. Stop. Bisogna imporre la giustizia già tra noi concordata oppure lasciarmi libero ai miei studii. Stop. Rspondimi. Ti abbraccio di gran cuore.” Nemmeno un mese dopo il Patto era siglato. Nel mezzo i riferimenti contenuti nelle missive a Mario, dove riferisce: “Ieri ragionai e sragionai con due Armatori sino alle 20 e 20. Il mio cervello restò paralizzato per lunghe ore. I due furono irreprensibili nella forma ma tenacissimi nella sostanza. Il solito fascino operò sull’epidermide. Infatti dovetti aggiungere altri quattro baci alla collezione delle tenerezze armatoriali. Non c’è nulla da fare, per la persuasione. Bisogna imporre il trattato, o lasciarmi lavare le mani pilatescamente (ne ho bisogno).” La lunga lettera a Ciano è un excursus nei ricordi, nei rimpianti, nei desideri frustrati, vissuti all’ombra delle grandi imprese passate, ora vanificate da accordi in cui D’Annunzio non riconosce più l’amico fedele di un tempo. “Ma non io fallisco all’amicizia, non io fallisco alla sincerità, non io fallisco alla volontà di ben servire. Tanto soffro, che non ho cuore di affrontare la cagione vera della mia sofferenza. Tu hai forse notato che non ho rotto il triste silenzio né verso te né verso il Presidente, quando gli ingenui credettero che il Patto marino fosse alfine sancito. Fin dal 26 maggio, nel discendere dalla carlinga coraggiosa, il Presidente mi dichiarò avere a te conferito la facoltà di applicare il Patto e, in ispecie, quella “provvisione di benefizio” - di valore ideale e futuro più che materiale e presente - quella “ provvisione” che di tuo arbitrio tieni tuttora sospesa e dubitante. Bisogna che io abbia il coraggio di dirtelo, fratello: tu m’hai rinnegato. (...)” Questo tradimento compiuto al sacro fuoco dell’amicizia è il vero dolore dannunziano, che si sprigiona in queste undici pagine come un solo, unico lamento. Un documento straordinario, storico per un verso ma, come sempre accade in D’Annunzio, intimamente lirico allo stesso tempo.
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